Con l’ultimo (per ora) articolo a tema ungherese voglio portarvi sulle sponde del lago Balaton. Tra le mete più rinomate c’è la penisola di Tihany, su cui sorge la cittadina omonima, e che è posta sulla riva nord. Nonostante un certo fascino intrinseco, la visita mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca, per le ragioni che vi dirò.

Il mio “errore” è stato quello di arrivare sul posto a ridosso dell’ora di pranzo. Metto le virgolette perché, data l’organizzazione del viaggio e i giorni a disposizione, non avevo libertà al 100% nel decidere gli spostamenti. Nondimeno, giungere nel momento di maggiore ressa turistica ha reso tutto abbastanza sgradevole. Per quasi tutto il tempo ho avuto la spiacevole sensazione di avere qualcuno addosso. Anche quando percorrevo sentieri più isolati – ad esempio le passerelle che affiancano il Belső, un piccolo lago interno alla penisola – mi ritrovavo con altri visitatori da tutti i lati. Forse perché abituato alla calma delle località viste in precedenza, il disagio è stato forte.
Già Tihany è partita male con i suoi parcheggi a pagamento – strategicamente utilizzati per sfruttare, giustamente, i numerosi turisti. Poi è proseguita peggio dandomi l’impressione di essere solo un villaggio vacanze con poca “anima”, se così posso dire.
Qualcosa di carino c’è. Innanzitutto, la vista sul Balaton merita diverse foto. Quando ci sono andato, sia l’acqua che il cielo erano di un azzurro grigiastro, e sembrava che una foschia volesse unire aria e acqua, rendendo sfumato il loro confine.
Una nota locale colorita è la fissazione per la lavanda, prodotto locale che cresce in abbondanza. I numerosi negozi di souvenir propongono una marea di saponi et similia a base di questo fiore e c’è pure una specie di museo a tema.
Antropicamente parlando, l’edificio di maggior pregio è la Basilica, di origine medievale e posta su un rilievo da cui si ammira il panorama. Anche il resto del centro storico è carino, ma è davvero minuto.
Inutile dire che sono “scappato” da qui dopo il tempo minimo necessario per farmi un’idea del posto. La penisola è una meta “imprescindibile” per chi viaggi da queste parti, ma mi sento di consigliare di fermarsi in qualche altra cittadina lungo il lago – ce ne sono a bizzeffe – per trovare un po’ più di tranquillità.

Se volete seguire le mie orme, potete recarvi a Keszthely, che sorge sulla riva ovest. Molto più popolosa di Tihany, è però più “ariosa” e, nonostante la presenza di turisti, non mi sono sentito avvolto dalla marea umana.
Sostanzialmente la parte turisticamente interessante del centro storico si sviluppa lungo una singola strada, Kossuth Lajos: anche qui si ha un po’ la sensazione di stare in un villaggio vacanze, per via dei numerosi bar, gelaterie, ristoranti e negozi, oltre ad alcuni musei bizzarri.
Da una parte, la via conduce alla Fő tér, la piazza principale. Su di essa si affacciano molti edifici di un qualche interesse: il municipio, alcuni musei, un paio di monumenti, un ginnasio e la chiesa di Nostra signora di Ungheria, a sua volta affiancata da un giardino. In estate, degli irroratori posti nella piazza riversano acqua vaporizzata a intervalli di non saprei quanto tempo, per il ristoro dei passanti.
All’estremità opposta, la strada diventa Kastély utca e conduce, come si può desumere, al palazzo. Palazzo Festetics è il vanto della cittadina: apparteneva a una famiglia nobile, alcuni dei cui componenti avevano una fissazione per i cavalli. Oltre a numerose statue e quadri di questi animali, troverete una collezione di carrozze in una mostra apposita, posta in quelle che erano le scuderie. Gli interni della dimora sono barocchi, secondo il gusto dominante. I giardini sono piuttosto ampi, peccato che solo che dalla terrazza la vista, oggi, sia un po’ meh: una volta questa era una dimora estiva e magari dava su boschi e prati, oggi si può vedere la splendida zona industriale della città.
Terminato il giretto, alla sera abbiamo cenato in un ristorante in centro, ma non proprio sulla strada della movida: spartano, ma gustoso. Una cosa che un po’ mi lascia perplesso è il comportamento dei camerieri. In tutti i Paesi in cui sono stato, generalmente accolgono il cliente, lo fanno sedere e gli danno il menù, chiedendo poi se si vuole ordinare. In alcuni luoghi giungono a essere perfino fastidiosi, ad esempio importunando la gente che passeggia per strada per convincerla a entrare. In Ungheria, siamo all’estremo opposto: molto spesso – per non dire sempre – il personale non ti considera. Possono vederti sulla soglia per dieci minuti senza neppure proporti di entrare, oppure al bancone senza che ti chiedano se vuoi sederti. Solo una volta importunati, ti danno indicazioni. Il servizio, però, è davvero velocissimo. Al termine della mangiata, tuttavia, tornano a ignorarti. Di solito, se un cliente resta a lungo senza consumare, il cameriere chiede se vuole ordinare altro o se preferisce il conto, mentre qui deve essere stimolato dal turista stesso. Sembra che non vogliano guadagnare. Sorvolo poi sulla quasi nulla conoscenza dell’inglese, che fa sì che si tenti di farsi capire in un misto di quattro o cinque idiomi, peraltro da me parlati tutti male.

Il mattino successivo ci siamo alzati di buon’ora per fare una passeggiata al Parco Helikon e al Balaton Part, le aree verdi adiacenti al lago, e lungo lo stesso lago. La mossa si è probabilmente rivelata giusta, perché ho incrociato pochissime altre persone e ho potuto gustarmi il giretto. Nei pressi del “molo” è stata eretto il nome della città, che gli esperti di marketing hanno deciso di trascrivere KeSZthely, le S e la Z a formare un cuore. Il panorama è gradevole, l’esercizio fisico pure. Non mancano alberghi fatiscenti e abbandonati, segno che anche qui si avevano pretese turistiche poi disattese.
Siamo tornati in centro intorno alle 09:00, con l’intento di fare colazione, solo per scoprire che caffè e pasticcerie aprono alle 10:00. Esatto, i caffè. Esatto, in un luogo turistico. Capisco la vacanza slow, ma insomma… spero che nessun lavoratore abbia bisogno di fare colazione presto, da queste parti, perché l’Ungheria non sarebbe il Paese per lui.
Concludo qui, come promesso!