Nel tempo in cui la terra divenne calda / Nel tempo in cui i cieli ruotarono / Nel tempo in cui il sole si oscurò / Per far brillare la luna… / Il tempo dell’ascesa delle Pleiadi / Il limo, che fu l’origine della terra / La fonte dell’oscurità che creò l’oscurità / La fonte della notte che creò la notte / La fitta oscurità, la profonda oscurità / Oscurità del sole, oscurità della notte… / Nulla tranne la notte. / La notte generò. / Nacque nella notte Kumulipo, un maschio / Nacque nella notte Po’ele, una femmina…
Di solito, quando vi parlo di roba epica, propongo testi poco noti o che comunque non interessano alla gente. Lo faccio più che altro per me stesso, perché mi piace ricordare ciò che ho letto e riportare impressioni. Nonostante ciò, sono libri che – se solo esistesse qualcuno che desidererebbe affrontarli – ha una sua logica presentare. Questa volta, invece, mi sento un po’ in difficoltà, perché il testo in questione è parecchio sui generis.
Quando Martha Warren Beckwith (1871-1959), l’etnologa che tradusse e presentò al resto del mondo il Kumulipo, pubblicò il proprio testo, lo sottotitolò “Un canto hawaiano della creazione“. E di questo, effettivamente, si tratta.
Per noi è una lettura stranissima. Non una poesia con una sua storia o una particolare coerenza. Non un normale mito fondante di un popolo con una serie di episodi o eventi. Forse, davvero, la definizione migliore è “canto”. La sua forza sta nella musicalità dei versi, nelle ripetizioni frequenti che danno ritmo e armonia alla composizione. E tutto questo, inevitabilmente, si perde in una traduzione. Anche la presenza del testo originale in hawaiano non aiuta completamente il lettore che ignora la lingua. Per avere un’idea, si possono cercare i numerosi video su YouTube che offrono un’interpretazione di questo canto di 2.102 versi. Perfino così, si tratta di una forma di esibizione canora che non è particolarmente affine a quelle a cui noi “occidentali” siamo abituati.
Ma allora, perché leggere il Kumulipo? Gente, non lo so! Sto cercando di giustificarmi per questo post fin dall’inizio.
Una ragione, però, mi viene in mente. Ovvero, può essere uno sprone a conoscere meglio la storia di un arcipelago noto più altro per le spiagge, le serie poliziesche e le ragazze con l’ukulele. E questo, forse, è stato anche l’obiettivo principale che ha indotto gli hawaiani a riportare il loro mito della creazione agli invasori che, dal XVIII secolo, hanno iniziato a presentarsi con sempre maggiore frequenza e arroganza nelle loro isole. Preservare la loro cultura, non lasciare che finisse nell’oblio e sparisse per sempre, come la famiglia reale del Paese. La cito perché fu proprio l’ultima regina regnante delle Hawaii a tradurre in inglese il Kumulipo a fine Ottocento. L’opera è costituita per la maggior parte da genealogie che conducono fino – appunto – all’ultima famiglia reale, deposta da elementi pro-USA nel 1893.
Le origini del popolo polinesiano e quelle della famiglia regnante sono fondamentali nel testo. Ognuno dei sedici capitoli (wā), infatti, riporta la nascita di qualcosa o qualcuno: persona, animale, fenomeno naturale… Le lunghe liste di nomi confondono inevitabilmente il lettore straniero, perché i personaggi, oltre a dire poco o nulla, presentano spesso dei soprannomi o il loro nome ha dei significati che si colgono solo nella lingua originale – e necessita quindi di una traduzione/nota che lo affianchi.
In questo caso, i commenti e l’apparato introduttivo sono decisamente utili per cogliere almeno alcuni degli elementi a noi estranei.
Personalmente non sono un esperto della storia hawaiana, ma gli scarsi accenni che mi sono giunti mi fanno supporre che sia piuttosto intrigante, forse anche per il fatto di essere poco nota.
Poi, diciamocelo, uno Stato americano che ancora oggi ha la Union Jack britannica nella bandiera, qualcosa di interessante da dire ce l’ha per forza.