di James Macpherson
Questo libro, scritto in parti nel ‘700 e pubblicato integralmente nel 1765, è un esempio di forged epic: ovvero l’autore ha finto di trovare antichi manoscritti che lui avrebbe tradotto e riportato. Ritengo sia piuttosto difficile credere nel reperimento di testi composti dall’eroe Ossian (l’irlandese Oisín) nel III secolo d.C., eppure la burla ebbe parecchio seguito, anche se fin da subito ci fu chi mise in dubbio la veridicità delle affermazioni.
Il narratore e uno dei protagonisti, Ossian appunto, è un guerriero e bardo dell’antico mondo gaelico che la Scozia del XVIII secolo stava riscoprendo per dare maggiore valore alle proprie radici e origini dopo l’Act of Union con l’Inghilterra.
L’opera si compone di vari poemi, alcuni costituiti da più canti. L’eroe principale è Fingal, il padre di Ossian, che compie prodezze in patria e all’estero fino a veneranda età, chiamato ripetutamente dal destino a riprendere in mano le armi. Di se stesso ama dire che guerreggia senza ritirarsi per vigliaccheria, ma che non ha mai attaccato il debole, il vinto o il giusto. Ad affiancarlo sono Ossian, gli altri tre figli, il nipote Oscar e altri validi combattenti, tra cui ricorre frequentemente Gaul. Le sue schiere riparano i torti subiti dai sovrani legittimi in Irlanda, Scandinavia e le isole del nord, battendosi contro gli usurpatori.
Il linguaggio è ricco di descrizioni di impatto, di lamenti strazianti e di riferimenti ai tempi antichi. Molto frequente il riferimento ad elementi tipici del paesaggio di quelle zone: le colline, le onde, la nebbia, la brughiera. E anche dei colori freddi ad essi associati: l’azzurro del mare, il bianco della spuma, ma anche delle braccia e dei seni delle fanciulle, il nero dei loro capelli.
Altra caratteristica è la compenetrazione del mondo dei morti con quello dei vivi: i fantasmi dei guerrieri defunti compaiono ai loro cari per avvertirli della dipartita dell’amato, oppure vagano nel vento e nella nebbia, facendo risuonare i loro lamenti. Un vero eroe non può riposare in pace se un bardo non ha innalzato un canto in suo onore sulla tomba. Sembra una sciocchezza, ma nella cultura di quei tempi e luoghi era un elemento fondamentale, così come importantissimo era il ruolo dei cantori, che dovevano tramandare le gesta e renderle immortali.
In tutta sincerità i testi non mi hanno catturato completamente e molto spesso mi sono chiesto “ma quando finisce questo canto?”, però non posso non riconoscere una certa maestria nel ricostruire un mondo ormai scomparso. Naturalmente – soprattutto con le mie limitate conoscenze – non posso dire quanto sia pura invenzione e quanto no. L’ipotesi più probabile, per me, è che Macpherson si sia effettivamente informato sui canti tradizionali gaelici, rielaborandoli però secondo il proprio gusto e il proprio stile. Differiscono abbastanza dalle opere celtiche che ho letto finora e hanno un sapore decisamente “romantico”: il libro infatti può ritenersi un precursore di questo movimento.
Esistono varie edizioni in italiano, non tutte facilmente reperibili. Io ho letto quella di Panda Edizioni, carina anche se con vari refusi.