di Arthur O. Friel
“Oggi i malati stanno meglio, Thomaz?”
“Molto meglio, senhor” disse il ragazzino, con noncuranza. “Sono morti”.
Abbandonatevi con me nelle descrizioni colorite e nelle avventure scanzonate nella foresta amazzonica scritte da uno dei più celebri autori pulp americani di inizio Novecento. Immergetevi nelle ambientazioni dettagliate ma forse un po’ stereotipate del Brasile del 1920, pieno di insidie sia da parte dell’uomo che da parte della natura.
Partiamo dalle minacce umane: che sia un avido avventuriero tedesco o che si tratti di feroci tribù di cannibali, o magari di bande di criminali peruviani che varcano il confine, l’Amazzonia pullula di tagliagole e loschi figuri. Certo non mancano personalità più positive, come coraggiosi indigeni – ma sempre cannibali – o piantatori di alberi della gomma con il loro piccolo impero economico.
E la natura? Forse che non è matrigna? Ogni anfratto, ruscello, foglia possono nascondere pericoli mortali: serpenti, giaguari, alligatori, piranha e, soprattutto, zanzare, la minaccia peggiore per ogni intrepido cercatore di avventure.
“Non è un posto per un figlio di ministro o un ragazzo grasso”, come sottolinea uno dei tre protagonisti. Qui solo i più duri e temprati sopravvivono. Reduci della I guerra mondiale, McKay, Knowlton e Ryan sono stati incaricati di trovare un uomo le cui notizie si sono perse nel folto dell’Amazzonia. Trovarlo vivo o morto. Preferibilmente vivo. Perché quest’uomo ha ereditato una grande fortuna e i notai vogliono sapere se spetta a lui oppure no.
Una storia tutto sommato semplice ma avvincente, che sembra un po’ il prototipo di tante avventure analoghe che sono venute dopo. Friel (1885-1959) è poco conosciuto, soprattutto in Italia, ma è evidente come abbia segnato l’immaginario collettivo e un certo modo di fare narrativa che si è mantenuto vivo fino a oggi. I tre americani che ci guidano nel folto della giungla sono stati protagonisti di una serie di romanzi, così come lo sono state anche le due guide brasiliane che li aiutano, Lourenço e Pedro.
Il linguaggio è semplice, lo stile senza pretese, la storia con pochi fronzoli. Anche i personaggi, per quanto caratterizzati, risultano tutto sommato poco approfonditi, senza tratti che spicchino particolarmente. Solo uno risalta perché ricopre il ruolo di comic relief, è un po’ il buffone di turno, e ha pure una parlata tipica, un suo slang. Questo però è quasi più fastidioso che utile per connotarlo, perché alla lunga irrita un po’, anche se alcune delle battute migliori vengono pronunciate da lui.
“La sicurezza innanzitutto. Sorridi a una di loro [le donne indigene] e un’altra potrebbe prendersela perché è stata trascurata, e improvvisamente ti accorgi di aver scatenato un casino senza volerlo. Guardiamo qualcosa di meno pericoloso, una di quelle lance avvelenate, ad esempio”.
I brasiliani e i nativi amazzonici sono descritti in maniera stereotipata o, perlomeno, ricalcano un po’ i tipi fissi che si ritroveranno in numerosi altri romanzi successivi. Nonostante questo, l’autore trascorse del tempo in Sudamerica, in particolare in Venezuela, quindi le sue descrizioni di luoghi e popoli non sono del tutto campate in aria, ma derivano dall’esperienza personale. Su tale periodo scrisse anche un’opera autobiografica, inoltre scelse di ambientare molti dei suoi romanzi sempre in Amazzonia, per sfruttare le proprie conoscenze del posto e renderli più credibili. Tale decisione è senza dubbio da apprezzare.
Consiglio questo libro? Sì, ma solo se non avete grosse pretese. È ideale se avete voglia di una lettura veloce di evasione e se non vi dispiacerebbe affrontare un antesignano delle moderne storie di avventura.