Dopo che all’appuntamento precedente vi ho parlato dei lavori del maestro Leone, vi propongo ora le opere di alcuni registi “minori” che però possono valere una visione. Ammetto che non è stato facile selezionarne solo una manciata.
Il ritorno di Ringo
Il ritorno di Ringo, 1965, Italia/Spagna, regia di Duccio Tessari
Questo è forse il più “casereccio” e alla buona dei film che vi propongo oggi. Si tratta del sequel del forse più famoso Una pistola per Ringo (1965), che però potrebbe essere qualitativamente inferiore al secondo episodio della bilogia. Curiosamente, all’inizio non doveva essere il sequel della succitata pellicola, ma il successo riscontrato da quest’ultima spinse i produttori a cambiare il nome al protagonista e il titolo.
Regista e attore principale sono sempre gli stessi: Giuliano Gemma, soprannominato “faccia d’angelo” per la sua fisionomia da ragazzino innocente, ha ricoperto varie volte i panni del pistolero. In questo caso interpreta un reduce della Guerra Civile che torna al paese natale e scopre che quest’ultimo è sotto il controllo di una gang di banditi messicani. Non solo: la moglie sta per sposare il leader di questa cricca, dato che tutti credono morto il legittimo marito. Sotto mentite spoglie, Ringo cercherà di capire se la donna lo ama ancora e, ovviamente, di ottenere vendetta.
Non penso possa ritenersi una produzione di grande pregio, tuttavia ha il merito di tenere incollati allo schermo senza annoiare, complice la trama relativamente semplice – per non dire ingenua – e il relax che induce. La storia, in ogni caso, è un adattamento della parte finale dell’Odissea, quindi semplice sì, ma sicuramente con un illustre predecessore. La recitazione è senza infamia e senza lode, ma tutto sommato coerente con la realizzazione di poche pretese ma capace di intrattenere.
Django
Django, 1966, Italia/Spagna, regia di Sergio Corbucci
Complice la più recente uscita di Django Unchained di Quentin Tarantino, la pellicola di Corbucci ha subito un’impennata di notorietà.
Purtroppo faccio parte di quella piccola schiera di spettatori che ritiene Django un po’ sopravvalutato, perlomeno da un punto di vista puramente tecnico-artistico e di fascino della trama. Non posso però negare la carica innovativa e le trovate originali. Se un uso della violenza più marcato rispetto agli standard americani era già stato ben visibile in realizzazioni antecedenti, questo film estremizza la cosa: orecchie mozzate, mani maciullate e uso di finto sangue rosso shocking si sprecano. Non si salva nessuno, tutti sono più o meno malvagi e sadici: il barone locale razzista, i criminali messicani, lo stesso Django (pur con delle attenuanti). Memorabile e ormai iconica è la scena iniziale in cui il protagonista giunge in paese trascinando una bara sul terreno tremendamente fangoso.
Degna di menzione è la colonna sonora di Luis Bacalov, capace di creare un motivo diventato abbastanza noto e di non far rimpiangere troppo il Morricone di più alte produzioni. Produzioni che vengono in qualche modo richiamate dalla presenza del protagonista archetipico dello spaghetti western: Franco Nero è l’eroe solitario e vendicatore, che non disdegna di mescolare ideali e brama di oro.
Di fronte allo scalpore e alle emozioni suscitate, lo spettatore può soprassedere sugli errori tecnici e su alcune scene abbastanza assurde. Tale fu infatti la fama raggiunta dal film che il nome di Django fu appioppato a numerosi personaggi successivi, nella speranza di attirare un pubblico più ampio nelle sale. L’unico sequel ufficiale rimane Django 2 – Il grande ritorno (1987), decisamente meno memorabile.
Da uomo a uomo
Da uomo a uomo, 1967, Italia, regia di Giulio Petroni
Per l’ennesima volta il tema della vendetta la fa da padrone, anche se bisogna riconoscere a questo film il merito di differenziare e approfondire quanto basta un leitmotiv altrimenti abusato.
Bill (John Phillip Law) non è stato in grado di vedere in faccia i criminali che hanno sterminato la sua famiglia, ma ha memorizzato alcune delle loro caratteristiche (cicatrici, tatuaggi…). Quindici anni di allenamento dopo, eccolo pronto per cacciare e abbattere i colpevoli. Sulla sua strada incontrerà Ryan (Lee Van Cleef), ex-membro di quella stessa banda che, tradito, è rimasto in prigione per anni e non ha mai ricevuto la sua parte di bottino. Essendo entrambi alla ricerca delle stesse persone, formeranno un’instabile alleanza.
Come dicevo, il gran pregio del film è la capacità di affrontare una tematica abituale con insolita maestria, approfondendo questioni quali: quanto ci si può spingere in là per la vendetta? Quanto si è disposti a rischiare? Anche la ricerca dei colpevoli è più articolata e meglio sceneggiata della media cui il western nostrano ci ha abituati. Il rapporto ambivalente tra i due protagonisti fornisce inoltre materiale perfetto per l’analisi psicologica, l’inserimento di doppiogiochismo, la creazione di suspense su quale dei possibili finali ci verrà proposto.
Non molto famoso – ci sono tanti titoli meno validi ma più noti – è però capace di distinguersi.
Il grande silenzio
Il grande silenzio, 1968, Italia/Francia, regia di Sergio Corbucci
Altro western particolarmente anomalo. Completamente disincantato e totalmente privo di spiragli di luce, è forse l’opera più meritevole di Corbucci da un punto di vista artistico. Girato in una Cortina completamente sommersa dalla neve, ci narra di Silenzio (Jean-Louis Trintignant), pistolero muto in quanto gli furono tagliate le corde vocali. Trovandosi tra le braccia di una bella vedova, cercherà di salvarla dalle grinfie di Tigrero (Klaus Kinski) e della sua banda di cacciatori di taglie, finendo con lo schierarsi dalla parte dei fuorilegge.
L’eroe, paradossalmente, protegge i criminali, i quali però non sembrano più colpevoli di chi vuole ucciderli: molti sono ingiustamente accusati e attendono l’amnistia, mentre i bounty killer sono spietati e assetati di denaro e violenza. Il West al suo tramonto (1898) è rappresentato a tinte davvero fosche e si ammanta di un crudo realismo talmente marcato da sfociare nel pessimismo. La fame, la povertà, la disperazione… ma anche il sadismo e l’ipocrisia sono evidenti in ogni momento.
A parole non è semplice descrivere la scelta narrativa del regista ma, se non siete impressionabili, vi invito a provare questo film. Vi basti sapere che i produttori chiesero a Corbucci di modificare alcune scene proprio perché l’opera era alquanto inusuale per l’epoca.
Vamos a matar, compañeros
Vamos a matar, compañeros, 1970, Italia/Germania Ovest/Spagna, regia di Sergio Corbucci
Decisamente più scanzonato, anche se non privo di momenti seri e di risvolti politici, è ambientato durante la Rivoluzione messicana. Il cast – per gli standard dello spaghetti western – è di un certo livello. Franco Nero è un mercenario svedese intenzionato a vendere armi ai guerriglieri; Tomas Milian è un improvvisato sottufficiale rivoluzionario; Jack Palance è un ex-socio del mercenario che ha perso una mano a causa sua; attorno a questo trio compaiono vari nomi frequenti del genere, dando vita a una storia vivace e intrecciata: il generale Mongo è più interessato al denaro che alla rivoluzione, la bella Lola si innamora del peone Vasco, il professor Xantos conosce la combinazione di una cassaforte piena di dollari ma è prigioniero negli Stati Uniti… Le vicende dei personaggi si intersecano, ciascuno con propri obiettivi che, giocoforza, dovrà rivedere a causa degli eventi.
Il finale è un po’ scontato, ma la realizzazione è complessivamente buona e poi c’è Ennio Morricone, che è una garanzia e la cui canzone portante della colonna sonora fa venire voglia di imbracciare un fucile e lottare per la causa.
Keoma
Keoma, 1976, Italia, regia di Enzo G. Castellari
In fase di tramonto del genere, Castellari propone un film crudo e carico di simbolismo. Franco Nero è ancora una volta protagonista e interpreta il mezzo-sangue Keoma, che affronterà i suoi fratellastri e l’ex-ufficiale confederato Caldwell, i quali si sono impadroniti di una cittadina a scapito degli abitanti.
Le atmosfere sono cupe, il cielo grigio, il fango grigio, l’umore della gente grigio… Un’atmosfera tetra, su cui aleggia la Morte, che ha le fattezze di una donna anziana che gira per il villaggio. Si percepisce qualcosa del disincanto di cui ho parlato per Il grande silenzio. Keoma è vittima di violenze come lo sono gli abitanti e la donna incinta che ha casualmente salvato. I fratellastri non hanno pietà di lui, lo appendono come vittima sacrificale (una sorta di simbolismo che rimanda alla crocifissione di Gesù), vogliono lasciarlo morire.
La donna incinta rappresenta lo spiraglio di vita, di speranza, di un futuro. Ma quale futuro? Quali rosee aspettative attendono il nascituro, in una terra martoriata dalla violenza, seppure il bene abbia trionfato?
Un film senza dubbio atipico, con una trama di base forse non originale, ma resa tale dagli elementi sopracitati, in cui Castellari credeva molto. Lo stesso regista realizzerà Jonathan degli orsi nel 1994 e pare intenzionato (ma chissà poi quanto) a fare perfino un sequel intitolato Keoma Rises… L’ultimo guizzo del sotto-genere.
Come ho precisato inizialmente, la scelta è stata difficile e avrei senza dubbio potuto optare per altre pellicole. Voi cosa ne pensate? Ne avete vista qualcuna?
Per l’elenco complessivo dei sotto-generi western che sto trattando. —> Qui.
Sei riuscito a mettermi curiosità di vederli praticamente tutti questi film a me sconosciuti (lo ammetto). Nonostante sia cresciuto vedendo film western con mio papà, questi non li conosco. Grazie!
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Be’, almeno Corbucci merita un’occhiata, secondo me!
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Caspita che bel post. Complimenti. Il Grande silenzio e’ un film bellissimo. Piani di lettura differenti, con un linguaggio che supera per certi versi i primi 3 di Leone. Ci sono anche altri grandi titoli, ma immagino farai un post n.3 sull’argomento. Fritz.
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Purtroppo ho limitato gli Spaghetti western a soli due post, non volevo esagerare!
Scusa ancora per la mancata risposta, ma come ti ho detto altrove, WP non mi ha segnalato alcuni commenti…
Sono contento ti sia piaciuto “Il grande Silenzio”!
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Figurati. Il blog è un hobby che facciamo gratis. Ci mancherebbe lo prendessimo come un lavoro. Un plauso. Continuerò’ a seguirti.
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Se ti va, potresti suggerire tu qualche altro titolo, può essere utile per eventuali curiosi! Se poi un giorno ne parlerai sul tuo blog, sarò felice di confrontarmi con te.
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