Ciao a chiunque! Con questo post termino la mia carrellata (anche troppo lunga, temo) di western che hanno affrontato il tema della frontiera in maniera tradizionale, classica. Come al solito, ci sono dei titoli decisamente famosi e qualche anomalia. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate.
Duello al sole
Duel in the Sun, 1946, Stati Uniti, regia di King Vidor
Un film che quando uscì fece scalpore per i suoi contenuti sessuali, cosa che però gli fornì pure una discreta pubblicità. La storia è quella della mezzosangue Pearl (Jennifer Jones), che viene ospitata da una ricca famiglia nel suo ranch e che riesce a conturbare un po’ tutti, in ispecie i figli del proprietario (Joseph Cotten e Gregory Peck).
Benché decisamente vittima dei propri turbamenti amorosi, Pearl va ad aggiungersi alla tutto sommato nutrita schiera di personaggi femminili del western forti e decisi: confusa, mentalmente turbata dalle attenzioni sia negative che positive che riceve, la sua psicologia è sottilmente analizzata, come anche quella degli altri personaggi.
Elemento di principale innovazione è, a mio avviso, il duello finale, uno dei primi che avviene tra un uomo e una donna.
Ottima la regia, spettacolari alcune riprese con una fotografia bruciante e graffiante degli aridi paesaggi in cui si consuma il dramma, gustosa e apprezzata la presenza di attori del calibro di Lyonel Barrymore, Lillian Gish, Charles Bickford, Harry Carey e Walter Huston. Forse un po’ prolisso, ma meritevole.
Winchester ’73
Winchester ’73, 1950, Stati Uniti, regia di Anthony Mann
L’ennesima accoppiata Stewart/Mann che dà vita ad un ottimo prodotto. In questo caso non si può non sottolineare l’originalità della scelta narrativa. Benché molto importante sia la caccia ad un assassino fuggitivo, il punto di vista principale non è quello dell’uomo di legge, bensì quello del fucile che dà il titolo al film.
Nel corso della narrazione assistiamo infatti al passaggio di questo prezioso oggetto dalle mani di un proprietario a quelle di un altro, in un continuo giro di furti, scambi, riconquiste. Questo comporta inevitabilmente la presenza di un cast corale – cosa che a me piace quasi sempre – pur non mancando naturalmente i personaggi principali. Saranno questi ultimi, alla fine, a sfidarsi in un duello tra le rocce che è stato a mio avviso reso ottimamente: il degno suggello di una storia tortuosa in cui tutto deve giungere alla sua conclusione.
Forse visto oggi Winchester ’73 può apparire datato, soprattutto per uno spettatore giovane, ma non posso fare a meno di continuare a ritenerlo molto interessante e avvincente. Ad affiancare il sempre valido e simpatico James Stewart troviamo i bravi Shelley Winters, Dan Duryea e Stephen McNally.
Il cavaliere della valle solitaria
Shane, 1953, Stati Uniti, regia di George Stevens
Esiste un’espressione che indica lo scontro tra bene e male, usata anche in informatica per riferirsi a differenti tipi di hacker: white hat vs black hat. Insomma, chi porta il cappello bianco è il buono, chi ha quello nero è il cattivo. Non so se l’origine di questo modo di dire risale a Il cavaliere della valle solitaria, ma qui i personaggi vestono esattamente nel modo indicato. Shane (Alan Ladd) è il pistolero buono per antonomasia, che viene accolto da una famiglia di coltivatori e decide di aiutarli contro le angherie del cattivo di turno. La famiglia è generosa e accogliente: il figlioletto ammira il pistolero per la sua abilità, la madre (Jean Arthur) ha una certa attrazione per lui, il padre (Van Heflin, a quanto pare abituato a ruoli in cui gli si insidia la moglie, si veda Quel treno per Yuma) gli è profondamente amico. Shane farà la cosa giusta: non intaccherà la serenità famigliare, farà il suo dovere e se ne cavalcherà via, ricordando al giovinetto che saper sparare bene è importante, ma non doverlo fare è meglio.
Un vero grande classico, ben realizzato ma forse troppo “tradizionale” per un pubblico odierno.
La pistola sepolta
The Fastest Gun Alive, 1956, Stati Uniti, regia di Russell Rouse
Questo è uno di quei film che inserisco per i miei gusti personali più che per la loro ascesa nell’Olimpo del cinema.
In questo caso viene affrontato quello che è un tema noto del genere, anzi, forse più che un suo tema vero e proprio, uno stereotipo che i non seguaci del genere hanno: ovvero che nei film di questo tipo ci fosse sempre una gara ad essere “la pistola più veloce del West”. Bene, qui ci troviamo di fronte proprio a questo: un personaggio che ha cercato di nascondere il suo passato e vivere da tranquillo cittadino ma che anni prima ha avuto fama di essere il più rapido con il grilletto. Con una nomea così, salta sempre fuori qualcuno pronto a sfidarti per dimostrare di essere migliore.
Glenn Ford interpreta questo personaggio il cui passato e presente sono in contrasto e il cui futuro è decisamente dubbio. La sua recitazione è secondo me molto efficace e davvero viene da dire “lasciatelo in pace, poveraccio”.
Il film è corto e fila liscio che è un piacere. Il finale è forse prevedibile, ma comunque soddisfacente.
L’uomo che uccise Liberty Valance
The Man Who Shot Liberty Valance, 1962, Stati Uniti, regia di John Ford
Ford abbandona gli spazi aperti della Monument Valley e la natura (quasi) incontaminata della frontiera selvaggia per condurci negli ambienti ristretti di un piccolo paesino: quasi una metafora del passaggio da un mondo rurale ad uno urbano, dove la legge e l’ordine devono farsi strada, un nuovo stile di vita propugnato dall’avvocato interpretato da James Stewart. Ma, per fare ciò, sarà inevitabile chiedere aiuto ad un uomo che incarna a sua volta il passato, il rancher interpretato da John Wayne. Perché la civiltà ha in questo specifico caso un grosso rivale in Liberty Valance (Lee Marvin), che ha fatto della Colt e della violenza la sua legge. A completare il quadro c’è il triangolo amoroso con la bella di turno, Vera Miles.
Pur essendo il film un lungo flashback (la storia inizia infatti 25 anni dopo), riesce ad essere molto intrigante nonostante si siano già rivelati fin dall’inizio alcuni eventi futuri. Quasi certamente tra i miei dieci western preferiti, ha una storia coinvolgente e una regia eccellente, oltre ad un tono crepuscolare che mette sempre una certa malinconia. Vedere due dei miei attori preferiti insieme sullo schermo, poi, contribuisce al mio apprezzamento.
Il Grinta
True Grit, 2010, Stati Uniti, regia di Joel e Ethan Coen
Remake dell’omonimo film del 1969, presenta una trama tutto sommato simile, ma al tempo stesso più affine a quella del romanzo da cui la storia è tratta.
In questo caso a vestire i panni del rude marshal è Jeff Bridges, mentre la ragazzina che gli chiede aiuto è Hailee Steinfeld (questo si può definire il film che l’ha lanciata). Come nella pellicola precedente, anche qui a poco a poco lo spettatore inizia e rendersi conto che la “true grit” di cui si parla nel titolo, la vera grinta, non è solo dell’uomo di legge, ma anche e soprattutto della ragazzina determinata e pronta a tutto. A completare il cast ci sono Matt Damon nel ruolo del Texas Ranger LaBoeuf, Josh Brolin e Barry Pepper.
Il film è forse un po’ lento, ma ottimamente girato, e non fa rimpiangere i vecchi classici. Cosa non scontata in un remake, inoltre, non sfigura di fronte al predecessore, forse anche per via dell’impostazione leggermente diversa data alle due pellicole, che quindi riescono a distinguersi pur nelle notevoli somiglianze.
Presentando un buon realismo e una certa dose di crudezza senza però sacrificare lo spettacolo, rimane probabilmente uno dei migliori prodotti western del primo decennio di questo secolo.
Per l’elenco complessivo dei sotto-generi western che sto trattando. —> Qui.
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