LIBRI: Il faraone

di Bolesław Prus

Prus

In questo mondo transitorio solo la sapienza è duratura e permanente.

Faraon (questo il titolo originale) è un romanzo scritto nel 1894-95 dall’autore polacco Boleslaw Prus (1847-1912), nome d’arte di Aleksander Głowacki.
Come viene spoilerato dalla prefazione dello stesso autore, il libro mostra gli ultimi anni della XX dinastia egizia, periodo di crisi tra la figura del faraone e la casta sacerdotale. Protagonista è il figlio omonimo di Ramses XII (nella realtà l’ultimo sovrano con tale nome fu l’XI), giovane impetuoso, amante delle imprese militari e deciso a cambiare in meglio la situazione del Paese.

Il romanzo è piuttosto lungo – 600/700 pagine – e ha modo di sviscerare ampiamente le problematiche dell’Egitto, che però rimandano fortemente a quelle di un Paese attuale. Il sovrano deve barcamenarsi tra le casse dello Stato praticamente vuote, le minacce di nazioni straniere, gli interessi dei nomarchi – i governatori locali -, le proteste del popolo, i debiti con e le richieste dei mercanti fenici, la grande presenza di immigrati… e ovviamente i privilegi dei sacerdoti, che non intendono cedere, né paiono voler aiutare il faraone, ormai burattino nelle loro mani.

Non è sempre una lettura spedita, la mole e la ricchezza di dettagli certamente spingono a prendersi più di una pausa. Tale prolissità, però, contribuisce a illustrare con chiarezza la situazione in cui si trova Ramses, facendo quasi provare anche al lettore l’angoscia e il senso di impotenza di cui era vittima. Ogni capitolo evidenzia l’impossibilità di governare come si vorrebbe, dal momento che ciascuna scelta può contribuire ad alleviare una problematica, ma ne solleva altre.
Per fare qualche esempio, i mercanti fenici sono pressoché gli unici che prestano denaro al sovrano, ma chiedono in cambio forti interessi e spremono i contadini egizi che lavorano nelle terre date loro in affitto; d’altro canto, gli amministratori locali intascano parte delle entrate e, nel caso dei sacerdoti, non intendono aiutare economicamente il faraone. L’esercito appoggia il giovane Ramses, ma senza paga non è possibile mantenerlo in attività, né tantomeno aumentarne i ranghi; dall’altro lato, ridurlo renderebbe più deboli agli occhi dei popoli confinanti. La forte immigrazione aumenterebbe la popolazione in calo, ma è malvista e introduce problemi sociali.

L’unica certezza per il giovane Ramses pare essere che non ci si può fidare di nessuno. Ogni volta che qualcuno sembra essergli amico, si rivela successivamente un doppiogiochista, una persona falsa e infingarda (ho scritto davvero “infingarda”?). Davvero difficile barcamenarsi alla guida di uno Stato quando si è in realtà alla mercé di chiunque.
Come oggi, gli interessi personali, i privilegi, la corruzione, impediscono al Paese di prosperare.

L’autore però è ancora più sottile: siamo davvero sicuri che quanto Ramses si propone di fare sia effettivamente quanto è meglio per l’Egitto? Lui stesso ha molti dubbi e frequentemente cambia idea circa la corretta linea d’azione. Ma, al di là dei mutamenti di rotta che avvengono nelle sue decisioni a causa di nuovi eventi o scoperte, il lettore non può fare a meno di chiedersi se per caso – pur con le sue buone intenzioni – il giovane non stia sbagliando. Per quanto egoista e ipocrita, forse la casta sacerdotale ha parzialmente ragione quando espone il proprio punto di vista. La ragione e la verità sembrano molteplici e ardue da cogliere.

Come si può evincere, è un libro estremamente attuale nelle tematiche, anche se si serve della metafora del romanzo ambientato millenni fa. È necessario sorvolare sulle imprecisioni storiche, dato che le conoscenze a fine Ottocento non erano quelle odierne. Ci si può riuscire abbastanza facilmente, anche se personalmente ho trovato alcune scelte – in particolare nella parte finale – un po’ ardite ed evitabili.

Il linguaggio è volutamente elaborato e ricalca la parlata forbita che si ritrova nelle iscrizioni dell’epoca, alcune delle quali vengono inserite nel romanzo. Un esempio, da cui traspare anche la piaggeria di molti personaggi:

Come una palma aspetta la rugiada, così faccio io con gli ordini dei superiori. E quando non li ricevo, sono come un orfano nel deserto che cerca un sentiero.

Non mancano inoltre le riflessioni filosofiche.

Chi è che non ha preoccupazioni? Chi è che si mette a dormire e ha il diritto di dire “Questo giorno è trascorso senza dolore”? Chi è che, giacendo nella tomba, può affermare “La mia vita è trascorsa senza tristezza, senza paura, come una serata calma sul Giordano”? […] Il pianto è la prima parola di un essere umano su questa terra, e un lamento il suo addio. Pieno di sofferenza viene al mondo, pieno di dolore va al suo luogo di riposo eterno.

Oppure questa, sulle grandi opere del passato.

La questione non è questa: le piramidi sono necessarie?, ma che questo è il volere del faraone, che deve essere realizzato una volta espresso. Così, questa piramide non è la tomba di Cheope, ma il suo volere.

Ho citato prima la questione degli immigrati. In effetti l’Egitto era un Paese in cui vivevano molti popoli, provenienti spesso da luoghi meno ricchi. Leggete questa descrizione e ditemi se non può rispecchiarsi nel razzismo di oggi.

Come un leone, sebbene non affamato, si prepara a spiccare un balzo quando vede un animale comune, così Ramses, sebbene non lo avessero offeso in nessun modo, provò un odio terribile per quegli stranieri. Lo irritavano il loro linguaggio, i loro abiti, l’odore dei loro corpi, perfino i loro cavalli. […] Sembrava che gli spiriti di tutti gli egizi uccisi in battaglia, le loro fatiche e sofferenze si fossero risvegliate nell’anima di questo discendente dei faraoni e gridassero vendetta.

L’ultima citazione è quasi divertente nel suo dirla lunga sull’affetto per certi stranieri,

Possa perire! Possa la lebbra divorarlo! Possano i suoi figli diventare guardiani di porci e i suoi nipoti ebrei!

Si tratta quindi di una lettura impegnativa, ma che offre validi spunti di riflessione.

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