Blasco Ibáñez è uno dei più noti scrittori spagnoli vissuti a cavallo tra XIX e XX secolo. Ai più, in Italia, dice poco, ma possono forse risultare familiari un paio di suoi titoli, grazie alle trasposizioni cinematografiche: Sangue e arena e I quattro cavalieri dell’Apocalisse. In patria è ricordato per essere stato un esponente del movimento letterario noto come “naturalismo”, che calcava la mano su aspetti quali il determinismo, l’imparzialità e la ricerca di scientificità nel descrivere la realtà. Di seguito, un commento alle quattro opere che ho affrontato.
La barraca (1898)
Scritto per commemorare un periodo in cui l’autore fu costretto a nascondersi in una povera capanna per sfuggire alla Guardia Civile, che lo ricercava per le sue idee repubblicane, narra le vicende di un piccolo paesino della Valencia. Inizialmente ogni capitolo mostra il punto di vista di un personaggio differente, per poi convergere in un filone unico. Centrale è la descrizione della vita povera dei contadini, della loro mancanza di cultura, delle difficoltà economiche, delle angherie dei “padroni”, della loro etica primitiva. Si può definire un monumento all’uomo povero, al perdente, a colui che fallisce pur avendocela messa tutta. Il perno di tutto sono le ostilità che i paesani rivolgono ad una famiglia di nuovi arrivati, rei di aver occupato le terre appartenenti ad un vecchio che fu un tempo imprigionato per essersi opposto ai padroni. Un’umanità colorita, sempliciotta e misera trapela dalle pagine, così come numerose sono le descrizioni dei paesaggi contadini.
La catedral (1903)
La storia inizia narrando la vita di un giovane cresciuto negli ambienti religiosi della cattedrale di Toledo, la cui famiglia lavora per essa da generazioni. Dopo aver combattuto per la causa carlista nella guerra del 1872-76, vive da esiliato in vari Paesi europei. Dopo anni, malato e perseguitato per le sue idee repubblicane e anticlericali, decide di trascorrere il poco tempo che gli resta presso il fratello, che vive nella cattedrale della sua giovinezza. Il libro è piuttosto pesante. Le descrizioni dell’edificio religioso e della vita delle persone semplici che vi lavorano sono affascinanti, precise ed evocative. Purtroppo a mancare è un intreccio coinvolgente, un minimo di azione. Il protagonista, non troppo simpatico, si perde in continui pipponi filosofici in cui sciorina le proprie convinzioni; si può dire che sputi nel piatto in cui mangia, come gli fa notare un altro personaggio (poco simpatico pure lui), dal momento che la Chiesa che disprezza gli sta offrendo rifugio e alloggio. Pur potendo essere interessanti le disquisizioni anti-religiose e pro-socialiste, sono troppo lunghe e costituiscono una parte troppo consistente del romanzo, che ha ben poco da offrire in termini di intrattenimento. Il pregio maggiore sono le dette descrizioni e la capacità di calare nella vita del tempo.
Sangue e arena (Sangre y arena, 1908)
Romanzo che più correttamente andava tradotto con “Sangue e sabbia”, narra le vicende di un torero sivigliano. Pur riconoscendo il suo valore letterario, la profondità di analisi psicologica, le descrizioni dettagliate, l’approfondimento dei personaggi e della vita nella Spagna rurale, l’ho trovato molto pesante. Letto a piccole dosi, qualche pagina al giorno, è facilmente affrontabile, ma complessivamente è un’opera piuttosto ostica. I personaggi, poi, non sono il massimo. Il protagonista è un po’ un coglioncello ingenuo; delle donne direi che la descrizione ha qualcosa di misogino: una è passiva e scaramantica fino al feticismo, un’altra è piuttosto stronza; i comprimari sono tipi fissi e stereotipati che ripetono sempre le stesse frasi. Ultimo elemento negativo, il finale troppo sbrigativo e prevedibilissimo. Ciò che ho apprezzato di più sono i momenti in cui ci viene mostrato il pensiero dei personaggi senza commento da parte dell’autore, ma sufficientemente chiari da far sì che il lettore possa farsi un’idea personale della distanza tra il parere di chi pensa e la realtà che lo circonda. Insomma, qui siamo su vette letterarie già troppo alte per me, che sono alla ricerca di autori di “serie B” (quelli famosi ma che non si studiano a scuola, per capirci); Blasco Ibáñez è un caposaldo della narrativa spagnola e forse per questo non è adatto alle mie letture d’evasione.
I quattro cavalieri dell’Apocalisse (Los cuatro jinetes del Apocalipsis, 1916)
Finalmente, dopo un libro passabile e due pesantucci, è arrivato quello che risolleva ai miei occhi questo autore! Quasi certamente la sua opera più celebre, racconta di una famiglia di origini franco-argentine che deve confrontarsi con la realtà della I guerra mondiale, avendo parenti tedesco-argentini sul fronte opposto. Prima di arrivare al tema del conflitto bellico, assistiamo ad un lungo excursus sul passato della famiglia, narrato subito dopo un capitolo introduttivo ambientato nel presente (è una tecnica molto usata dall’autore). Sia il periodo trascorso in Argentina – probabilmente quello che mi è piaciuto di più -, sia quello su suolo europeo sono esposti in maniera scorrevole, che riesce a rendere non troppo stancante la lunghezza del libro. I sentimenti di paura, orgoglio, irritazione, dolore, amore… sono resi con efficacia e abbondanza di introspezione dei personaggi. Gli orrori della guerra sono esposti con crudezza e amara ironia (“solo in Messico bianchi e meticci si sterminavano nella rivoluzione, affinché nessuno potesse credere che l’uomo è un animale rammollito dalla pace”), con numerose descrizioni di distruzioni, sofferenze, rancori. Il mio consiglio è: se volete leggere Blasco Ibáñez, puntate qui.